
Il rapimento di Aldo Moro ha rappresentato, forse, il momento più drammatico e cruciale degli “Anni di piombo”. Le Brigate Rosse sferrano un attacco micidiale allo Stato, sequestrando il leader della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, ed uccidendo gli uomini della scorta. Era il 16 marzo 1978 e 55 giorni dopo venne ritrovato, in via Caetani, il corpo senza vita del Presidente della DC. Una vicenda, questa, circondata da punti oscuri e caratterizzata, successivamente, da diverse polemiche. Lo Stato ha, in realtà, fatto qualsiasi cosa per salvare la vita di Moro? Questo, però, non vuole essere un articolo di approfondimento in merito a quel cruciale evento della vita politica del nostro Paese, ma solo una riflessione sull’opera coraggiosa di Bellocchio.
In risalto l’umanizzazione degli altri brigatisti (interpretati da Luigi Lo Cascio, Giovanni Calcagno e Pier Giorgio Bellocchio). E’ bene sottolinearlo, il film di Bellocchio non è opera di denuncia e non presenta nessun tipo di tesi ideologica; il tutto viene narrato attraverso gli occhi di Chiara. La cronaca di quei giorni viene, diciamo, piegata alla poetica del regista.
Bellocchio, perciò, si appropria della tragedia che ha coinvolto Moro e il Paese e ne ha tirato fuori un film coerente con le scelte stilistiche tipiche della sua filmografia. “Buongiorno, notte” è stata concepita come opera del “ribaltamento”. Non c’è vera e propria ricostruzione storica dettagliata, bensì ritratto psicoanalitico, per così dire. Il leader della DC ci viene presentato come persona dotata di una definita umanità, lontana dagli stereotipi classici del politico. Il sogno, la componente onirica, prende piano piano il sopravvento rispetto al reale. Moro libero che cammina per le strade è qualcosa che appartiene solo al sogno, la realtà è decisamente più cupa. Del resto, gli “anni di piombo” sono stati momenti caratterizzati da un sovrapporsi di sogno (le utopie dei brigatisti) con la realtà (le stragi, le tante azioni violente). Bellocchio ne ha voluto parlare proprio con questo film che, tuttavia, non è riuscito a portarsi a casa il Leone d’Oro, il massimo riconoscimento della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Tutto ciò ha provocato polemiche, che hanno coinvolto lo stesso regista, il quale ha manifestato apertamente la propria delusione, e Rai Cinema, in veste di produttore del film.
Non è facile vincere dei premi (vanno ricordati, però, alcuni riconoscimenti ottenuti, nel 2004, al David di Donatello ed al Nastro d’argento) con un tema simile e con una struttura narrativa di questo tipo. Probabilmente Bellocchio non perdonerà mai i giurati presenti a Venezia in quella 60ª edizione, ma a lui va il merito di aver voluto percorrere un terreno accidentato, non rinunciando al suo stile, al suo modo di intendere la regia e il cinema. Già solo per questo meriterebbe un premio prestigioso, un premio all’onestà intellettuale…
