Delitto di Ferragosto

È il 12 agosto: Roma si svuota, poche sono le macchine in circolazione e molti i cartelli arancioni con la scritta “Chiuso per ferie”. Il crimine però non va mai in vacanza e nella canicola pomeridiana il commissario Ventura, seduto alla scrivania, stila il suo rapporto: il corpo straziato di una ragazza è stato ritrovato nel pratone dell’Appia, una zona di prostituzione.
La vista di quella prostituta bambina è un pugno allo stomaco per il poliziotto, che a 55 anni, dopo anni di esperienza professionale, non ha smesso di credere nella vita e nella verità. Irascibile, insofferente, diabetico con una passione per il cibo che talvolta gli fa preferire la birra all’insulina, il commissario Ventura è un anti-eroe che non smette mai di combattere. Questo però non sarà per lui un caso come gli altri, ma una battaglia capace di toccarlo nell’intimo, con un finale sorprendente, e una verità che forse avrebbe preferito non scoprire.
Danilo Pennone in Delitto di Ferragosto (Newton Compton Editori), – con Il cadavere del lago e Delitto alle saline parte di un’amata trilogia -, unisce alla tensione del noir quella dell’umano sentire, regalando ancora una volta al lettore un romanzo intrigante e appassionato.  

Danilo Pennone, davvero un investigatore sui generis il commissario Ventura. Come lo presenterebbe ai nostri lettori?
DP: Il commissario Mario Ventura è un uomo che si è lasciato imprigionare da una dolorosa solitudine. E’ spesso arrogante, ma fragile, cinico e disarmante. Anche se la sua vita di sconfitte farebbe pensare a una resa, egli invece appare tutt’altro che un uomo arreso. Ventura conserva ancora un inaspettato amore per la vita e per la verità. Ed essendo un uomo che non ha nulla da perdere, è deciso sino alla fine a portare avanti le sue indagini, che spesso si scontrano con poteri che hanno troppi interessi a tacere, a occultare e a omettere.

Un poliziotto, ma anche un marito e un padre con alle spalle una storia difficile…
DP: Nei romanzi in cui è protagonista il commissario Ventura, l’elemento più importante non è solo risolvere l’enigma, ma presentare l’uomo. Il perno delle vicende raccontate nella trilogia a lui dedicata sta proprio in questo aspetto. Poi, il destino vuole che, in tutte e tre le storie, le vicissitudini personali si intreccino con i casi da risolvere. Non so se Ventura sia stato un buon marito, un buon padre o un buon figlio, forse è proprio dai suoi errori che si sviluppa il dramma. Certo è che dall’assenza e dal dolore ne emerge costantemente un uomo con tanta consapevolezza dei suoi limiti.

Ventura lascia la sua Sicilia e si trasferisce a Roma. Che città trova?
DP: Il trasferimento avviene nel 1997, dopo la morte della moglie, Antonia Chiaramonte, un magistrato della procura di Ragusa, uccisa per delle indagini che svolgeva su un giro di appalti miliardari. In realtà, la sede è un commissariato di una cittadina dei Castelli: Marino. Tuttavia le incursioni nella Capitale sono frequenti, e non solo per motivi di lavoro. La città che trova è incantevole ma al tempo stesso difficile da comprendere e, in fondo, con gli stessi problemi lasciati nella sua Sicilia. Vedi, per esempio, il conflitto con il costruttore Gaetano Roccagiara, uno dei protagonisti di Delitto di Ferragosto, emblema di quella speculazione edilizia in combutta con un potere che preferisce girarsi dall’altra parte, incurante delle ferite procurate all’ambiente.
Roma, quindi, è per Ventura una culla di contraddizioni. Ne è un esempio il padre dell’Oratorio musicale, Giacomo Carissimi, che giace in una fossa comune, sotto la cripta della basilica di Sant’Apollinare, destinata invece a essere la tomba di uno dei capi della Banda della Magliana. Per Ventura, insomma, Roma, rappresenta la fuga da un passato che inesorabilmente si riaffaccia in ogni angolo della città.

Un suo personaggio sostiene che la bravura di uno psicologo “sta nello scorgere un raggio di sole senza negare l’oscurità del paesaggio.” Pensa che valga anche per un giallista?
DP: E’ una citazione presa in prestito dalla psicologa statunitense Marsha Linehan. Nel romanzo la frase compare due volte. Nel primo caso, serve a marcare il pessimismo di Ventura nei riguardi della psicoterapia. Nell’altro caso, invece, la frase assume un senso di ritrovata speranza nella Giustizia. Tradendo le buone regole cui dovrebbe attenersi un giallista, dico che non sempre, purtroppo, quel “raggio di sole” penetra l’oscurità dell’animo umano. Pertanto, vale la lezione di alcuni romanzi di Sciascia e di Dürrenmatt, che sono stati per me un punto di riferimento: l’elemento costante non è solo risolvere un caso, ma ragionare proprio sull’ ”oscurità del paesaggio”.

Un’ultima domanda. Perché ha intitolato i capitoli del suo romanzo come i tempi musicali di uno spartito: allegro, andantino, presto furioso?
DP: Poco fa, ho citato Giacomo Carissimi. Ebbene, Mario Ventura, prima di diventare poliziotto, aveva studiato dieci anni pianoforte al Conservatorio di Catania, la città di Vincenzo Bellini, e la sua aspirazione più grande, prima ancora di una carriera nei ranghi della Polizia di Stato, era stata quella di diventare un concertista. Tuttavia, non è riuscito mai a diplomarsi. Egli inciampa sull’Islamey di Balakirev, brano assai difficile da eseguire.
Partendo proprio da questa sonata, ho voluto strutturare il romanzo. Primo, per esaltare l’aspetto dell’animo più sensibile del poliziotto Ventura, con continui rimandi al mondo della musica, e nello specifico ai tre movimenti di quella sonata, cui in libertà ho aggiunto un quarto movimento come conclusione, poi soprattutto per accompagnare una considerazione che Ventura farà nel finale, riferendosi proprio a un passaggio musicale alternativo inserito nella partitura del musicista russo, l’Ossia. Cioè la possibilità di avere a disposizione un’alternativa più semplice da eseguire.
Ventura, non sfruttando tale possibilità, viene bocciato al Conservatorio, e, come per quell’attestato, non orientando le indagini su una pista alternativa, ma ostinandosi in un’unica difficile impresa, fallirà; scoprendo il colpevole, suo malgrado.

Delitto di Ferragosto
di Danilo Pennone
Newton Compton Editori

Danilo Pennone è nato a Roma, dove vive e insegna. Ha esordito nella narrativa nel 2008 con il romanzo Confessioni di una mente criminale (Newton Compton), da cui è stato tratto uno spettacolo teatrale, rappresentato, tra l’altro, al Todi Arte Festival 2009, con la direzione artistica di Maurizio Costanzo, e nelle carceri romane di Regina Coeli e Rebibbia con il patrocinio del Garante per i Detenuti del Lazio. Ha scritto per riviste specializzate diversi saggi sul cinema, lavorando come assistente alla cattedra di Storia del Cinema presso l’Università “La Sapienza” di Roma. È autore musicale e teatrale. Nel 2019 un suo racconto è stato tra i finalisti del Premio letterario “Giallo Ceresio”. Con la Newton Compton oltre che Delitto di Ferragosto ha pubblicato anche Il cadavere del lago e Delitto alle saline.

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