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    Vite di strada

    Donata ZoccheBy Donata Zocche04/11/2020
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    Vite di strada
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    Vite di stradaLe Vite di strada (Persone e storie alla Stazione Trastevere) raccontate da Fabrizio Nurra nel suo ultimo libro edito da Infinito Edizioni, si muovono in una Roma nascosta, sconosciuta ai più.

    Appartengono a persone che, quando si spengono le luci delle vetrine, cercano riparo nell’angolo di un portico o lungo il Tevere.
    Queste persone l’autore le conosce bene: da più di trent’anni la sera scende in strada con la Comunità di Sant’Egidio per distribuire loro coperte e un pasto caldo. Un gesto semplice che però fa la differenza per chi rischia la “morte anagrafica”, ossia la perdita dei diritti fondamentali, come avere una casa. E sono ormai in tanti a correre questo rischio. A Roma, – scrive Nurra -, le persone senza dimora sono 8000, di cui 3000 vivono in strada, ma quelle in attesa di un alloggio popolare sono ben 35000.             
    Si chiamano Monica, Claudio, Kristòf, Krystyna oppure Nemo, perché quando smetti di essere “dalla parte dei normali” non sei più nessuno. Sono giovani, vecchi, stranieri, e sempre più spesso italiani colpiti dalla crisi economica. Vengono ‘tollerati’ a patto che siano invisibili, perché il piano di restyling delle città causa il fenomeno del disappearing sociale: i poveri non si devono vedere, devono andarsene dal centro e vivere alla periferia del mondo. Così anche quel luogo di incontri che era la stazione ferroviaria è diventato un ‘non-luogo’ dove non c’è posto per i ‘non-uomini’. E’ proprio a loro che in Vite di strada Fabrizio Nurra dedica un ritratto autentico, carico di umanità, dove la dignità nasce dalla solidarietà, per poter coltivare insieme il sogno di una vita normale. L’autore scende in strada con loro, tra loro, anche nel racconto, dove la voce diventa un ‘noi’, perché “da soli non ci si salva”. Mai.

    Fabrizio Nurra, ci porta nella Stazione Trastevere di ieri?          
    FN: Quella di Trastevere, dopo la decisione di privilegiare Termini come snodo principale, è una stazione minore di Roma, anche se, negli intendimenti del Governo piemontese appena insediatosi nella Capitale, doveva essere un volano per la prima Roma industriale, che si sarebbe sviluppata nell’asse ostiense-portuense. Luogo di passaggi e di arrivi dove si andava di fretta, al pari delle altre, la Stazione Trastevere offriva comunque riparo a chi non aveva casa. Si poteva dormire nell’atrio la notte, c’erano fontanelle dove bere e bagni pubblici decenti. Non lontano, c’era un bel giardinetto – vera delizia per i bambini e gli anziani del quartiere – che si affacciava su un mercato rionale dove si poteva comprare un panino a prezzi modici. La Stazione era un microcosmo, non era un mondo a parte e non faceva paura. Tanti anni fa avevo fatto amicizia con un maresciallo, che vedeva di buon occhio la nostra presenza lì. Lui conosceva la storia di ognuno. La moglie di un ferroviere, che abitava nei paraggi, era una bravissima cuoca. Quando arrivava, portando il pranzo cucinato per la sua famiglia, ma in abbondanza per sfamare chi stava per strada, era una vera festa. Insomma, era un luogo dove non c’erano muri tra mondo dei ricchi e mondo dei poveri.              

    Quella di oggi invece com’è?    
    FN: Anche la Stazione Trastevere ha risentito di quel processo che Iain Borden definisce mallification, termine difficile da tradurre che significa ampia diffusione di centri commerciali nelle città, che ha trasformato totalmente il panorama urbano. Le stazioni sono divenute vere “zone rosse”: se consumi sei il benvenuto, se sei un senza dimora, farò di tutto per scoraggiarti a rimanere. Termini ne è l’esempio più evidente. All’inizio, l’esclusione sociale è stata mascherata dal design: si pensi solo all’evoluzione delle panchine, studiate per scoraggiare la permanenza di chi è senza dimora. Si è provato a fare qualcosa del genere anche alla Stazione Trastevere, ma con minore successo. Oggi alla Stazione Trastevere non dorme più nessuno, è un “non luogo” dove migliaia di persone si incrociano senza mai entrare in relazione e dove la presenza di chi vive per strada è appena tollerata. Anche il giardino vicino alla Stazione si è trasformato. Oggi è un ecomostro: nato come parcheggio per Porta Portese, è rimasto una delle tante incompiute romane. Purtroppo, l’architettura “ostile” è stata preceduta da anni di predicazione avente come dogma l’ideologia del decoro: tutto deve sembrare pulito e perfetto, per questo non si devono vedere i poveri, così poco decorosi.

    Proprio alla Stazione Trastevere lei opera di notte con la Comunità di Sant’Egidio. In cosa consiste il vostro intervento?         
    FN: Oggi alla Stazione Trastevere incontriamo poche persone. Chi vive per strada si è spostato in posti più sicuri, per paura di essere cacciato. Per questo, tra Trastevere, Marconi e Monteverde, raggiungiamo circa 40 luoghi dove, chi vive per strada, trova riparo la notte. Il nostro intervento consiste nel portare la cena, bevande calde e coperte. E’ un fatto importante anche perché spesso è l’unico pasto per chi vive per strada e non desidera affacciarsi alle mense per le persone che vivono in difficoltà. Per questo è preparato con cura. Nel deserto di relazioni umane si pone poi come un appuntamento nodale. C’è sempre grande attesa per il nostro arrivo. Nel tempo, abbiamo scoperto che chi vive per strada vive l’incontro serale con noi come un gesto materno di attenzione per la loro vita. Da parte nostra, non è certo uno sbrigativo svolgere un compito sia pure importante, come dar da mangiare, ma è l’occasione per fermarsi ad ascoltare e recepire preoccupazioni, paure, desideri, sogni. Negli incontri serali mettiamo assieme frammenti della loro vita. Costruire un rapporto di fiducia ci offre la possibilità di pensare soluzioni individuali per togliere dalla strada. Ci vuole tempo e costanza ma, negli anni, ho imparato che anche le situazioni che sembravano più difficili da risolvere possono avere una svolta inaspettata.

    Si ricorda la prima sera che è sceso in strada?  
    FN: Ho cominciato a scendere in strada alla fine degli anni ’80. Ero rimasto colpito dalla storia di Modesta Valenti, un’anziana senza casa, morta alla Stazione Termini senza ricevere soccorsi perché sporca. Quella vicenda emblematica, vero monumento dell’inaccoglienza, ha segnato la vita della Comunità di Sant’Egidio. Mi fu proposto di unirmi ad alcuni amici che portavano la cena alla Stazione Termini. Poi cominciammo a fare lo stesso a Trastevere. All’inizio non nascondo che avevo paura. Mi colpì subito un uomo, un italiano che si presentò come Nemo. Credevo di aver capito male il suo nome e me lo feci ripetere varie volte. Quando gli dissi che non conoscevo nessuno con quel nome lui mi spiegò, ridendo, che per la società lui non esisteva, era il signor nessuno: non aveva documenti, lavoro, casa, amici. Per questo era Nemo. Dopo qualche settimana ero tra i pochi che lo potevano chiamare col suo vero nome. Quando l’ho rivisto, dopo qualche anno, era cambiato e faticavo a riconoscerlo. Mi ha raccontato che il fatto di sapere che per qualcuno contava e che non era il signor nessuno, gli aveva dato la forza per riprendere in mano la sua vita.

    Chi sono le persone che incontra?        
    FN: Il mondo delle persone che vivono in strada è in continua trasformazione e la strada è un punto di osservazione fondamentale per comprendere come evolve la società. Qualche anno fa, quando è cominciata la crisi dell’edilizia, ho cominciato a incontrare molti polacchi. Gente mite, che all’inizio può sembrare introversa, ma che ha molto forte il senso dell’amicizia. Con loro non pochi italiani, gente normale che aveva perso il lavoro e la casa e voleva rimanere accanto ai luoghi dove aveva vissuto – come diceva un caro amico che ora non c’è più – la vita “normale”, quella prima di finire per strada. Nel periodo della pandemia ho incontrato, per la prima volta, un gruppo di ragazzi del Bangladesh. Erano tutti addetti alla ristorazione rimasti senza lavoro. Una vicenda che mi ha toccato particolarmente è stata quella di una famiglia di italiani che viveva in macchina. Mi stupì come fossero sconosciuti ai servizi territoriali. Mi ha commosso il loro affidarsi a me. In un anno, grazie ad un ottimo gioco di strada con i servizi territoriali e con i volontari, siamo riusciti a coronare il sogno di trovare una casa.        

    Nel suo libro lei descrive una Roma sconosciuta a molti. Era così anche per lei prima di avvicinarsi a questa realtà?    
    FN: Ho avuto la fortuna, fin da giovane, di vivere con la Comunità di Sant’Egidio nelle periferie, in quell’altra Roma che non faceva notizia. La prima cosa che feci – ero allora al primo anno di università – fu aiutare ad organizzare una scuola serale per prendere la terza media a Primavalle. Avevamo letto “Lettera a una Professoressa” di Don Milani e scoprivamo, anche se in un contesto del tutto diverso, il potere sovversivo delle parole. In quella scuola ho incontrato mondi tanto diversi: ragazzi miei coetanei, ben più sfortunati di me, donne che spesso vivevano situazioni di violenza domestica, uomini grandi, per i quali la terza media significava poter aspirare a un posto sicuro di lavoro. Una volta stavo a piazza Cavour e un autobus si è fermato in mezzo alla piazza e ha cominciato a suonare il clacson. L’autista, un mio ex alunno, mi aveva riconosciuto e voleva farmi vedere che la terza media gli era servita! Poi, negli anni, andando nel profondo, lo sconosciuto mi è diventato sempre più familiare ed è divenuto occasione di apprendimento e cambiamento. Dopo un po’ quel mondo romano sconosciuto mi era diventato familiare e lo sentivo più vero del mondo “finto” di Vigna Clara, dove vivevo.      

    Cosa ha dato e cosa ha ricevuto nella sua esperienza come volontario?             
    FN: E’ una domanda impegnativa che richiederebbe, da sola, uno spazio molto ampio. Sono sicuramente più le cose che ho ricevuto di quelle che ho dato. Le persone che vivono in strada, con la loro stessa condizione, mi hanno posto davanti la mia debolezza smascherando la mia presunta forza fatta di ruolo sociale, bel vestito, senso di superiorità. Sento ciò tanto più vero in questo tempo di pandemia. I poveri sono attrattivi. L’ho visto quando tante persone del quartiere si sono unite a noi e ci hanno permesso di poter “girare”, ormai, tutte le sere. Posso dire di essere fortunato ad avere avuto tanti maestri silenziosi: con umiltà, perché non hanno la forza e l’autorità per imporsi con arroganza, mi hanno interrogato e mi hanno aiutato a essere migliore, più sereno, più equilibrato.

    Vite di strada. Persone e storie alla Stazione Trastevere          
    di Fabrizio Nurra           
    Infinito Edizioni                           

    Fabrizio Nurra lavora presso l’Ufficio Affari Sociali della Prefettura di Roma. Ha pubblicato diversi articoli sul disagio sociale. E’ autore di tre libri: La mensa dei poveri a Trinità dei Pellegrini. Economia solidale nella Roma del Seicento (Firenze Atheneum, 2009); Chiara Maria della Passione. Un’eremita nel cuore di Trastevere (OCD, 2012); Io desidero la pace (Anì’ Rozeh Shalom). Morris Sciarcon, ebreo di Rodi sopravvissuto alla Shoah (Guerini, 2017).            
                 

    esclusione sociale Fabrizio Nurra potere relazioni umane Roma senza dimora solidarietà Stazione Trastevere
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    Donata Zocche

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