Cronaca di una sera al cinema con Geopop, fra scienza, meraviglia e “Mission Cultura”
Vulc è un road-movie magmatico che rimbalza dal Vesuvio ai Campi Flegrei, dall’Etna a Stromboli, intrecciando paesaggi e persone. “L’essenza di un legame”, recita il sottotitolo, perché il vero protagonista non è il vulcano, bensì chi lo abita e con lui convive.
Tra irrazionalità e conoscenza (non sempre scientifica)
Vivere accanto – o addirittura sopra – un vulcano significa stipulare fin da bambini un patto con l’irrazionale. Il brontolio sommesso, il silenzio improvviso, le fumarole che sbuffano, la terra che vibra, il rosso incandescente della lava: ogni segnale pare l’annuncio di un pericolo imminente, eppure quasi mai definitivo. Ci si abitua, diventa routine, una presenza impossibile da ignorare ma altrettanto impossibile da controllare. Alla fine, non se ne può più fare a meno.
Il primo strato del legame è viscerale, quasi animale: un imprinting sensoriale che insegna a “fiutare” l’umore della montagna. Solo più tardi – e solo per alcuni – la scuola, la Protezione civile o magari i video di Geopop portano la razionalità: mappe di microsismicità, piani di emergenza, curve di deformazione. Tuttavia, la scienza, da sola, non basta: non sostituisce l’istinto né i desideri, e andare via non è sempre un’opzione praticabile.
Un documentario che parla con due voci
Dalle nevi dell’Etna a una tavola da surf nel golfo di Catania, il film scorre veloce. Sullo schermo Andrea Moccia recita in doppia versione, come ha chiarito in conferenza: “Andrea-personaggio”, senza occhiali, immerso nelle storie di guide, archivisti e sciatori di crateri, ripreso interamente a spalla – niente gimbal, zero effetti patinati – così che anche l’inquadratura tremi; e poi “Andrea-narratore”, occhiali sul naso e telecomando in pugno, pronto a cucire i frammenti con dati geo-scientifici. Fra i due piani sfilano proverbi, tradizioni, riti propiziatori, alternati a panorami mozzafiato che sanno essere al tempo stesso meravigliosi e spaventosi.
Bellezza emozionante
Stromboli, di notte, regala lo spettacolo più primordiale che un essere umano possa contemplare: fuoco che nasce dalla pietra. Qui prende forma il titolo, “Vulc”.
Il cratere sigillato del Vesuvio, nella sequenza iniziale, offre invece la suggestione più inquietante.
I fondali sommersi di Baia aggiungono mistero, mentre i Campi Flegrei – con il recente ritorno di scosse – richiamano alla prudenza.
E poi c’è l’Etna: neve abbagliante sotto il sole, perfetta per una gita in famiglia, ma pronta a rovesciarsi in tragedia.
La bellezza di questi luoghi trattiene, promettendo terra fertile, turismo, vitalità, identità. Il vulcano, però, educa: obbliga a memorizzare vie di fuga, a rispettare le zone rosse, a costruire leggero o, quando serve, a non costruire affatto. È una relazione amorosa e violenta, simile a quelle mitologiche da cui nascevano eroi ed eruzioni.
Abitudine o resilienza?
Oggi il patto uomo-natura si incrina per l’accelerazione urbana. Restare diventa scelta politica e culturale: occorre riattivare la lentezza dello sguardo, far convivere tabelle INGV e leggende di famiglia, capire che resilienza non è resistere all’evento straordinario, ma incorporarlo nel quotidiano. Dopo la proiezione la domanda è inevitabile: perché vivere “sotto la canna del fucile”? La risposta di Andrea Moccia è “Abitudine, con un pizzico di fede pagana”. Mentre Claudio Morelli avverte: “Il problema non è l’eruzione, ma costruire ai Campi Flegrei come fosse la Pianura Padana”. La vera resilienza consiste nell’abitare consapevoli, come la nonna che dormiva col borsone pronto ai piedi del letto, non nel diventare turisti della domenica o dimenticare il vulcano appena riparte l’economia.
In sala tante domande da una platea di giovanissimi
Le mani alzate sono piccole e impazienti: un undicenne chiede il tour nelle scuole; una ragazza ricorda il celebre video sul Titanic; un altro vorrebbe entrare nel team; una tredicenne interroga Moccia sull’intelligenza artificiale, che lui definisce «strumento prezioso, purché la mente resti nostra». C’è tanta partecipazione e tanto entusiasmo, grazie ad una community solida ed attiva: una community entrata a far parte della produzione.
L’altra star della serata, infatti, è Mission Cultura, la membership inclusiva di Geopop: niente paywall, i contributi dei sostenitori finanziano contenuti gratuiti per tutti. In sei mesi i mecenati sono saliti a 7.300; a quota 10.000 scatterà una serie sul futuro. «È già virale» commenta qualcuno. Ma non è la viralità dei like: è quella della qualità condivisa.
La promessa di Vulc: più quiete che ansia
Vulc non cerca il brivido facile, non alza la voce per spaventare lo spettatore. Lascia il sapore di un rischio domestico, accettato con naturalezza: una tensione latente che accompagna il caffè del mattino sullo Stromboli e la passeggiata serale tra i locali sui Campi Flegrei.
Ricorda che i vulcani non sono lì per il panorama, né per spaventarci: ci invitano, invece, a rallentare, a fermarci ad osservare, a capire e progettare. Accettarne la presenza significa coltivare una consapevolezza duplice: non farsi paralizzare dalla paura, ma nemmeno cullarsi in una tranquillità illusoria. È un equilibrio fragile che appartiene alla geologia, alla cultura e, soprattutto, all’umanità.
E il telecomando? Resta un mistero. Forse è giusto che qualche segreto rimanga sepolto, proprio come talvolta succede alla lava sotto al basalto.