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Carnevale romano

mask2Periodo di trasgressione in cui si ha licenza di scherzare con i potenti e di sovvertire le regole della società, il carnevale ha un’antichissima tradizione a Roma.

Risale al XV secolo l’epoca in cui a Roma iniziò ad avere fama e lustro, grazie a papa Paolo II, non a caso veneziano, che permise ufficialmente festeggiamenti per le strade con cortei e corse di cavalli e asini. In particolare c’era una gara in cui i cavalli berberi correvano al galoppo e senza fantino lungo via del Corso e venivano poi bloccati da scudieri a piazza Venezia. Il padrone del cavallo vincente riceveva un palio.

Da allora fu un crescendo di popolarità per tutto il Rinascimento e fino al XIX secolo. Il carnevale romano è citato da Goethe, Gogol, Stendhal, Dickens e Dumas, ricordato in opere liriche e pittoriche. I festeggiamenti, che duravano una decina di giorni da cui però dovevano essere esclusi il venerdì e la domenica, culminavano il martedì grasso con la “gara dei moccoletti“, in cui tutti i partecipanti correvano per le vie del centro di Roma e, in particolare, lungo via del Corso con una candela accesa in mano con l’intento di spegnere le candele altrui.

rugantinoLe mascherate erano principalmente volte a prendere i panni dell’opposto nella scala sociale: il ricco si travestiva da povero e viceversa. Così le strade si riempivano di avvocati, popolane, prostitute, preti e mendicanti, con caratteristiche e colori esagerati, che si lanciavano gessetti e coriandoli (allora chiamati sbruffi). Era proprio la possibilità di trasgredire a rendere la festa tanto popolare: solo in quei pochi giorni era infatti concesso prendersi gioco dei potenti, ballare nelle strade e lasciarsi andare ad eccessi, in vista dei sacrifici della Quaresima, senza rischiare il carcere o, peggio, il boia.

Nel corso dei secoli, pur tra alti e bassi, proibizioni, nuove concessioni, punizioni e licenze, il carnevale romano superò in popolarità persino quello di Venezia, fino a quando verso la fine dell’800 Vittorio Emanuele II abolì i festeggiamenti a seguito della morte di un giovane investito da uno dei cavalli lanciati al galoppo in via del Corso.

Le maschere tradizionali che sono sopravvissute non sono molte, ma ci aiutano a ripercorrere le satiriche trasgressioni di quei giorni. La più nota è forse quella di Meo Patacca, un bullo attaccabrighe e manesco in cerca di una rissa in cui poter mostrare il suo coltello e minacciare l’avversario: la maschera rappresenta per eccellenza il carattere, un po’ spavaldo un po’ sbruffone, del popolano, che fa il duro coi deboli e si rigira la frittata coi forti, ma che poi alla fine non scappa se è per una buona causa. La figura è molto simile a quella di Rugantino, che però usa di più la sua naturale parlantina e meno le mani per fare il gradasso, essendo peraltro assai più mingherlino. Anche lui però sa dimostrare il suo vero coraggio al momento giusto. Sono le due facce della stessa tradizione popolare, scanzonate, perdigiorno ed arroganti, ma dal cuore grande.

Ci sono poi altre maschere meno note, come Cassandrino, un borghese padre di famiglia ingenuo, in balia della moglie e delle figlie e in contrasto con il potere papale, o Don Pasquale, un nobile vanesio, sempre riccamente vestito e svogliato, costretto a muoversi e darsi da fare a causa delle sue serve, che lo mettono in difficoltà.

Queste maschere sono ormai sparite, o quasi: le ritroviamo in commedie ed interpretazioni teatrali, ma fuori da un contesto così chiaro sarebbero probabilmente poco riconoscibili. D’altra parte il carnevale, almeno quello in maschera, sembra ormai diventato una festa “per soli minori”. Ma dato che la storia del carnevale romano ha avuto molti chiaroscuri, possiamo sperare che ci sia prima o poi un ulteriore cambiamento.

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