Zia lo sai che sei un po strana art

Zia, lo sai che sei un po’ strana?!

Zia lo sai che sei un po strana artAl suo posto mi sarei sparata” dice una studentessa alla sua insegnante, che le risponde: “Mi perdoni, ma penso che lei non viva bene neanche nei suoi di panni.” Il confronto, realmente avvenuto durante un seminario sulla disabilità, potrebbe essere il sottotitolo di Zia, lo sai che sei un po’ strana?! scritto da Patrizia Ciccani e edito da SP Joy.

 L’autrice è quell’insegnante, impegnata da anni a diffondere una della disabilità partendo dalla propria, una tetraparesi spastica con cui è nata. Perché se c’è qualcosa che non manca in questo libro autobiografico è la schiettezza, il non sottrarsi mai allo sguardo degli altri, alle loro domande, anche quando rispondere è difficile e a volte doloroso.
Ripercorrendo la propria storia personale, Patrizia Ciccani scrive quella della disabilità in Italia, da quando fino a qualche decennio fa i bambini come lei non erano accettati nelle scuole e venivano mandati in strutture-ghetto. Quando termini come handicap o integrazione neanche esistevano. Oggi, dopo una laurea in Paleografia latina e un dottorato di ricerca in Pedagogia, Ciccani è autrice di numerosi lavori sulla diversità e un’apprezzata esperta in questo campo.
“Il mio percorso è stato una gavetta tutt’altro che indolore
”, scrive l’autrice, che però dalla prima all’ultima pagina di Zia, lo sai che sei un po’ strana?! dimostra di aver camminato con tanta forza e ironia, sempre.

Cominciamo dalle presentazioni. Chi è Patrizia Ciccani?
PC: Sono una donna di 54 anni, con difficoltà di linguaggio e di movimento, definite tetraparesi spastica, condizione che mi accompagna fin dalla nascita. La mia disabilità è il mio biglietto da visita, con lei deve fare i conti chi mi incontra, anche se la mia ostinazione nel voler esser parte del mondo mi ha portato a non ritrarmi mai dall’incontro con gli altri. Sulle difficoltà di relazione ho costruito il mio lavoro di educatrice nelle scuole e il mio impegno di ricerca all’interno dell’Università, creando un laboratorio dove il materiale grezzo era la mia disabilità. Applico il mio modello di lavoro ogni volta che si presenta un’occasione, con bambini, ragazzi e adulti. Un elemento essenziale nel mio lavoro, che ora svolgo a titolo gratuito, è l’ironia, lo strumento più efficace per abbattere le barriere create dal pregiudizio, alleggerisce le relazioni, toglie quel velo pesante che troppo spesso copre la disabilità. Ho due grandi passioni: viaggiare e leggere.

Nel suo libro lei racconta che spesso da bambina si è sentita osservata ed etichettata in quanto disabile. Con quali pregiudizi si è scontrata, anche a scuola, e come è riuscita a superarli e a crearsi un’idea di sé che la rispecchiasse veramente?
PC: L’etichetta c’è ancora e l’essere osservata anche, la differenza è che da tanto tempo non me ne accorgo più, non sento più gli occhi su di me, sono riuscita a un certo punto della mia vita a separare quello che gli altri pensano di me, che è affar loro, da quello che io penso di me. L’opinione degli altri su di me è diventata sempre più relativa fino a perdere di importanza. Mi scontro ancora con chi pensa che io abbia un ritardo mentale, che non sia capace di fare quasi nulla, che sia una “poverina” da compatire, che non ho una vita sentimentale o amicizie, che… Tutto questo non mi riguarda più, ho tolto agli altri il potere di farmi soffrire o rendermi felice.  

Nella sua vita c’è stato un momento di svolta, il progetto Girotondo, rivolto ai bambini, quando ha cominciato a vedere la sua disabilità non più come limitazione ma come strumento per cambiare le cose, occasione di impegno civile. Cos’è successo?
PC: Attraverso il progetto Girotondo, creato all’interno di una cooperativa sociale, ho cominciato a sperimentare l’educazione come strumento potente in grado di cambiare le cose. Durante gli incontri ho sentito lo sguardo dei bambini che si trasformava, la paura svaniva cedendo il posto alla libertà di dire “non ho capito” quando io parlavo, di chiedere l’origine della mia disabilità, di esprimere ogni pensiero e sentimento che provavano nei miei confronti. Procedendo nella conoscenza reciproca la disabilità perdeva di importanza, continuava ad esserci, ma come caratteristica, non come problema. I bambini si sintonizzavano presto sulle frequenze della mia voce prestando un ascolto più attento e quando non comprendevano non esitavano a chiedermi di ripetere.

Ancora oggi sembra che non si riesca a fare a meno di catalogare le persone in normali e diverse. Considerare la diversità una tara invece di una ricchezza non è un equivoco culturale?
PC: La diversità, a mio parere, più che una ricchezza, è la normalità, nessuno è uguale a un altro. Se non si riesce a considerarla tale è perché ancora fa paura, si preferisce relegarla in cassetti facilmente governabili, piuttosto che farci i conti. Non si vuole comprendere che converrebbe a tutti riconoscere che fa parte della vita, della natura delle cose, si dovrebbe cominciare un grande lavoro educativo che non è mai stato preso in considerazione. Per fare un esempio, l’integrazione scolastica sembra realizzata, ma nella maggioranza delle scuole il rapporto tra il bambino con disabilità e i suoi compagni, spesso anche con i suoi insegnanti è difficile, proprio perché non viene curata la dimensione relazionale.

Ci spiega com’è nato il titolo “Zia, lo sai che sei un po’ strana?!”?
PC: Per spiegare come è nato il titolo dovrei svelare la sorpresa che contiene, e preferisco lasciarla ai lettori. Posso dire però che i miei quattro meravigliosi nipoti sono fonte continua di sorprese, il rapporto naturale che ho con loro è quello che mi piacerebbe avere con il resto del mondo.

Zia, lo sai che sei un po’ strana?!
di Patrizia Ciccani
SP Joy Editore

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