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Il Romanesco: dialetto o parlata?

il_romanesco_art‘Il più turpe di tutti i volgari italici’ secondo Dante, lingua intrisa di saggezza popolare nei versi del Belli, fonte di battute colorite nella vita di tutti i giorni. Il romanesco ha origini antiche e da sempre incarna l’anima di Roma e dei suoi abitanti.
Le forti influenze derivanti dal Toscano lo hanno reso particolarmente simile all’italiano, facendone quasi una parlata più che un dialetto. Ed è proprio per la sua facile comprensione che ha varcato i confini locali, regalando battute che sanno far ridere, talvolta anche a denti stretti, perché così è lo spirito del romanesco, pungente e dissacrante, anche quando si fa poesia.

Se pensiamo che inizialmente il latino viene parlato quasi esclusivamente nella città di Roma, è stupefacente come, tramite le conquiste di quest’ultima, si sia diffuso al di là dei confini geografici, diventando la lingua di tutte le nuove provincie, una sorta di codice comunicativo dell’antichità.
Già all’epoca della caduta dell’Impero Romano però, la lingua subisce notevoli mutamenti, per lo più con l’assimilazione di forme volgari come il ‘basso latino’, da cui in seguito sarebbero nate le lingue romanze.
Il linguaggio comincia ad assumere i ben noti toni coloriti, dei quali rimane traccia anche in luoghi deputati alla vita istituzionale o addirittura religiosa,, come nella Basilica di San Clemente, dove famosa è l’iscrizione a commento di un miracolo: ‘Fili de le pute, traite!’, espressione non proprio castigata.

Durante il Medioevo, il volgare parlato a Roma non si discosta molto dai dialetti delle altre città laziali e dal napoletano. Dante Alighieri lo definisce la peggiore delle lingue italiane, classificandolo come tristiloquium, linguaggio sordido, condannando anche l’abitudine diffusa di darsi del tu.
Nel ‘400 però, il volgare romano subisce un fondamentale cambiamento, la toscanizzazione, differenziandosi così dai dialetti dell’Italia centrale e meridionale. Il fenomeno, oltre che al prestigio indiscusso del fiorentino, è dovuto alla presenza a Roma durante il periodo rinascimentale, di una comunità toscana dai nomi illustri, tra i quali Leon Battista Alberti e Pietro Bembo.
L’influenza del toscano sulla lingua parlata, riguarda comunque inizialmente i ceti più alti, e comincia a diffondersi tra il popolo solo a partire dalla seconda metà del ‘500.

Fatto degno di nota per motivi linguistici, oltre che storici, è il Sacco di Roma del 1527, durante il quale entrano in città migliaia di persone , e a cui si fa risalire l’introduzione di molti termini di origine meridionale.
Roma perde l’occasione di diffondere in tutta Italia la propria lingua, cui tocca una sorte opposta rispetto al latino, rimanendo confinata alla sola città fino alla fine dell’impero Pontificio.
Proprio in questo periodo nasce il romanesco che conosciamo oggi, incrocio di termini romani con altri di origine toscana e campana, e il fatto che sia tipico della città, differenziandosi dalla parlata della provincia, si spiega probabilmente col fatto che è una lingua commerciale, usata  negli scambi dai cittadini dell’Urbe.

Pur subendo un’ovvia evoluzione linguistica, il romanesco attraverso i secoli ha tuttavia mantenuto il proprio carattere schietto, pungente, irriverente, infarcito non di rado anche da imprecazioni e parolacce.
Queste espressioni, forse anche una forma di reazione cinica e insieme caustica da parte di una popolazione che ha visto il potere manifestarsi nelle sue forme peggiori, non sono mai state esclusivamente popolari. La nobiltà e il clero romano sono sempre stati famosi per il loro linguaggio a dir poco colorito, tanto che Papa Benedetto XIV è noto come ‘er Papa parolacciaro’.
Ha scritto il poeta romano Giuseppe Gioachino Belli, uno dei maggiori interpreti di questo spirito salace e dissacratorio: ‘Io qui ritraggo le idee di una plebe ignorante, comunque in gran parte concettosa ed arguta, e le ritraggo, dirò, col concorso di un idiotismo continuo, di una favella tutta guasta e corrotta, di una lingua infine non italiana e neppur romana, ma romanesca’.

Nella foto il monumento a G. Belli presso il Ponte dei Quattro Capi

Immagine tratta da Wikipedia

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