A Roma c’è un proverbio che dice: “Chi se vò imparà a magnà, da li preti deve annà”. Ciò che si sottintende è che la cucina romana tradizionale, quella per capirci di chi prete non è, era un tempo fondata su piatti poveri e spesso sbrigativi, possibilmente abbondanti e assai saporiti.
La cucina delle classi meno abbienti era quella dei prodotti delle campagne del vicino Agro pontino, delle farinate e dei legumi.
Non a caso la celebre “polenta” dei romani era una pappa di cereali e legumi che nei diversi accostamenti prendeva altri nomi e sapori.
Capisaldi di questa cucina, erano i primi piatti, sia “asciutti”, sia “bagnati”, intendendo con questo sia le minestre, sia l’infinita serie di “pasta e …”: ceci, patate, fagioli, broccoli possibilmente con l'”arzilla”, la razza che è pesce povero.
Tra i legumi, i ceci la facevano da padroni, in questo caso anche sulla tavola dei ricchi. Bagnati di olio e presentati caldi in ciotoline di coccio aprivano il pasto della sera. Poi, con i secoli, la cucina del volgo prese l’abitudine di fare della zuppa di legumi il suo piatto della vigilia, con la tipica pasta ceci e baccalà.
Un discorso a parte merita il cosiddetto “quinto quarto”, ovvero quel che rimaneva della bestia vaccina o ovina dopo che erano state vendute ai benestanti (tra cui i preti) le parti pregiate, cioè i due quarti anteriori e i due quarti posteriori.
Si tratta, quindi, di tutto quanto è commestibile delle interiora:
– “trippa”, frattaglia costituita dalle diverse parti dei quattro stomaci del bovino, la cui parte più pregiata è l’omaso, a Roma detta anche “cuffia”;
– “pajata”, l’intestino tenue di manzo, o vitello, agnello, capretto, contenente ancora il chimo, sostanza ricca e cremosa costituita dal latte assunto dalla bestia poi digerito;
– “rognoni”, i reni della bestia da tenere a bagno in acqua acidulata con limone, prima di cucinarli;
– “animelle”, costituite da pancreas, timo e ghiandole salivari;
– “granelli”, i testicoli del toro;
– per finire cuore; fegato; milza; schienali; cervello; lingua; coda, tipicamente preparata “alla vaccinara”.
Solo quando c’era da far festa arrivavano l’abbacchio, ovvero l’agnello giovane,e il capretto, forniti dai pastori dell’agro pontino.
I maiali arrivavano invece dall’Umbria intorno alla città di Norcia, dove i macellai che vendevano maiale si chiamavano, norcini, e fino agli anni cinquanta non venivano venduti da dopo Pasqua a novembre.
Dalla carne ovina si prende anche la “coratella”, insieme delle interiora costituito da fegato, polmoni, cuore. Meglio se si tratta di un animale giovane.
Per il maiale e la vitella, vanno aggiunti gli “zampetti”, assai poco pregiati ma ideali per preparare sughi saporiti. E comunque potevano essere poi “rosicchiati” liberamente usando le mani.
In questa cucina il burro è uno sconosciuto: per ungere o per friggere si usava spesso lo strutto di maiale anche se il condimento d’elezione era ed è ancora il più mediterraneo olio, presente tra le produzioni tipiche del Lazio.
Ormai i locali in cui si trova la cucina tradizionale romana sono assai pochi, e quasi mai si cucinano questi piatti in casa, fatta eccezione per abbacchio e minestre. Ma vale la pena cercare e provare.