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    Home » PIRANDELLIANA 2023 (XXVII edizione), dal 4 luglio al 6 agosto dieci atti unici a Sant’Alessio all’Aventino
    Spettacoli teatrali Roma

    PIRANDELLIANA 2023 (XXVII edizione), dal 4 luglio al 6 agosto dieci atti unici a Sant’Alessio all’Aventino

    EZromeBy EZrome13/06/2023
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    Appuntamento da non perdere con una delle manifestazioni più attese ed eleganti dell’Estate romana, la celebre rassegna teatrale Pirandelliana (XXVII edizione: 4 luglio – 6 agosto 2023).
    L’Aventino, il colle più aristocratico di Roma, è da secoli come un’isola nel contesto urbano, tra il verde di parchi e villini, il silenzio mistico dei chiostri e i sotterranei di chiese e conventi. Alle sue pendici sorsero gli insediamenti arcaici da cui nacque Roma. Nell’aria aleggia ancora il mito leggendario di Remo e dei sei avvoltoi e si dialoga più confidenzialmente con l’eterno presente dei miti e dei fatti che qui hanno lasciato la loro impronta.
    Dal 1999 qui, nel Giardino di Sant’Alessio all’Aventino, è in scena Pirandelliana.
    Il teatro di Pirandello è la continua rivelazione di quel patto che è sempre sotteso al teatro, di quella convenzione per cui lo spettatore sa che sul palcoscenico si sta verificando una finzione e, tuttavia, proprio per il suo mestiere di spettatore, è tenuto a crederci. L’attore recita, dunque finge, ma deve essere creduto dallo spettatore come dicesse la verità. Si chiama teatro nel teatro.
    La regia di Marcello Amici giuoca la partita fino in fondo: ci deve essere un finale! Maragrazia, Luca Fazio, L’uomo dal fiore, Chiarchiaro, Lora, Tararà, l’Uomo grasso, Bellavita, Giulia e Andrea esigono un riscatto, un riconoscimento per il loro talento: la patente di Istrione. All’Aventino, l’Istrione! è il titolo della XXVII Edizione di Pirandelliana 2023.
    La vita è un breve momento di illuminazione, tutto il resto è buio. L’unica luce proviene dall’alto, da certi “lampioni oltre il celetto del teatro”. C’è poco tempo per parlare, si sta dentro un piccolo alone. Una replica del lanternino di Mattia Pascal e, attraverso quella luce, si crede di vedere gli elementi razionali ed emozionali dell’umanità, la parzialità di tutte le verità, l’illusorio carattere dei valori in cui crediamo. A volte, pare un dialogo con Leopardi cui Pirandello racconti la sua teoria sulla ragione.
    È un palcoscenico di istrioni. Ognuno arriva e racconta la stessa storia: la pena d’esser così e di non poter più essere altrimenti! Laggiù, oltre il fondale, c’è All’uscita.
    Dieci Atti Unici, dieci messinscena, quindi, tra narrativa e teatro dove si racconta la storia di popolani e di piccoli borghesi che vorrebbero vendicarsi di esistere in modo gramo e per questo cercano inquietanti strade di evasione e di rivalsa, quasi a difendersi dalla vita che fa male a tutti, inevitabilmente.
    Dagli appunti del regista: “Con dieci atti unici, legati tra loro con delle “monadi” pirandelliane, vorrei concludere una mia tesi: l’universo pirandelliano è lo spazio dell’istrione. Le sghembe poesie, i romanzi, le novelle, le commedie che lo popolano, sono aspetti di una contraffazione istrionica, alterazione di una voce umana nel tentativo disperato di sottrarre la vita alla pena di una forma. Per evitare lo scacco, per ingannare la morte, l’istrione adopera tutte le sue risorse: esaspera il giuoco, come Tararà ne La verità che racconta di non aver potuto fare a meno di uccidere la moglie con un colpo d’accetta; come Chiarchiaro ne La patente segregato nei panni di uno iettatore, come in un involucro difensivo, una pattumiera beckettiana in cui irrigidisce la maschera con cui gli altri lo coprono. Per lui non c’era l’art. 18 ed era stato buttato in mezzo ad una strada perché iettatore, con la moglie paralitica da tre anni in un fondo di letto e due figliole da marito; come L’uomo dal fiore in bocca che esibisce la sua stessa sofferenza nel vano tentativo di mutare in disgusto il piacere ineliminabile della vita. La dissimulazione pirandelliana è collocata ovunque, come All’uscita, tra apparenze di morti, nel significato delle parole che fanno nascere un nuovo teatro, attento, anche qui, a quello che sta succedendo a Vienna, in Bergasse 19”. Poi, La verità, la novella che si farà chiamare Il berretto a sonagli, L’imbecille, Sgombero, addirittura ripudiata dall’Autore e restata novella, La morsa, nasce novella nel 1892, diventa atto unico nel 1897, Bellavita, L’altro figlio e, infine, Enrico IV dal primo al 6 agosto.

    La Compagnia teatrale
    LA BOTTEGA DELLE MASCHERE
    presenta

    dal 4 luglio al 6 agosto 2023

    GIARDINO DI SANT’ALESSIO ALL’AVENTINO
    Piazza Sant’Alessio 23 – Roma

    PIRANDELLIANA 2023
    XXVII Edizione

    DIECI ATTI UNICI

    BELLAVITA – L’ALTRO FIGLIO – LA MORSA
    SGOMBERO – L’IMBECILLE – L’UOMO DAL FIORE IN BOCCA
    LA GIARA – LA VERITA’ – ALL’USCITA
    LA PATENTE

    ENRICO IV

    di Luigi Pirandello

    con
    Marcello Amici, Tiziana Narciso, Massimiliano Ferretti, Pier Giorgio Dionisi,
    Ezio Provaroni, Federico Giovannoli, Marina Benetti, Francesco Miriano, Francesca Sampogna, Martina Pelone, Luca Mandara, Caterina Lo Bue,
    Mariaelena Pagano, Marco Tonetti, Andrea Giannelli

    Scene, disegno luci e ricerca musicale – Marcello de Lu Vrau
    Costumi – Tiziana Narciso, Gianfranco Giannandrea, Livia Ciuco
    Assistente alla regia – Federico Giovannoli.
    Direzione tecnica – Roberto Di Carlo

    Regia di Marcello Amici

    GLI ATTI UNICI

    Primo gruppo

    BELLAVITA

    Il protagonista, si chiama così per un intercalare nei suoi discorsi, è un marito tradito e deriso che, rimasto vedovo, escogita una vendetta: pieno di rispetto e ossequio, inizia a seguire come un ombra il notaio, quegli che fu l’amante di sua moglie perché vuole che il dolore per la perdita della donna che entrambi hanno amato, sia condiviso. L’amante tenta inutilmente di liberarsi della soffocante presenza di Bellavita, utilizzando anche come intermediario un avvocato, ma nulla dissuade il vedovo dalla sua inusuale vendetta.

    SGOMBERO

    È una storia forte, drammatica, imperniata su un’unica protagonista, Lora che ha alle spalle una vita di soprusi, maltrattamenti, violenze familiari. Rimasta incinta, viene scacciata dalla famiglia. Lora, poi, aveva lasciato il bambino appena nato sulla soglia di casa dei genitori e aveva iniziato la vita di prostituta. È il trascorso.
    Muore il padre di Lora. È disteso sul letto. Arriva Lora. È sola, parla, racconta, urla contro i vicini curiosi che spiano dalle finestre, li redarguisce con ironia. Si affonda in una riflessione quasi religiosa sul cero e sul crocifisso, fino alla lunga invettiva contro il padre in cui si sfoga tutto ciò che ha sofferto, raccontando il suo vissuto.
    Si placa quando, frugando nel comò, trova il corredino del suo bambino morto tutto ben conservato.

    LA GIARA

    Si confrontano due ceti sociali: don Lolò Zirafa, uomo ricco e ossessionato dalla brama del possesso e Ziʹ Dima Licasi, un conzalemmi, un personaggio al limite del grottesco, immerso nella sua solitudine che, come tutti gli istrioni pirandelliani, ambisce ad una patente, quella d’inventore di un mastice miracoloso per acconciare le terraglie.
    Nella loro solitudine, Ziʹ Dima e Don Lolò si incontrano davanti ad una giara spaccata.
    La giara è un recipiente di potere, è l’involucro della nascita, l’utero e insieme la tomba, funge da totem, è un oggetto simbolo con il quale tutto quel mondo si confronta.
    La regia, nella notte, quando con la luna tutto incomincia a farsi di sogno sulla terra, rinnova tutto il racconto inserendo una sua idea; e così Ziʹ Dima si trasforma in un folletto gobbo dai molteplici aspetti. Diventa un dio della fertilità che scatena sull’aia una celebrazione dionisiaca della raccolta con i contadini che ballano attorno alla giara come tanti spiriti della notte. Si leva un canto alla luna, come quello di Ciaula che per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte piena del suo stupore. Ziʹ Dima povero, sfruttato e deriso prevale sul padrone ricco e avaro. La giara sta lì come una metafora della trappola esistenziale da cui è possibile evadere solo con un guizzo beffardo.

    Secondo gruppo

    L’ALTRO FIGLIO

    Maragrazia era andata al covo di Cola Camizzi per chiedere notizie di suo marito. Vide il brigante
    giocare a bocce con la testa dei suoi prigionieri. Si mise ad urlare; lo stesso Cola l’aggredì e un brigante di nome Marco Trupìa era corso in suo aiuto e uccise il Camizzi. In cambio l’uomo la tenne schiava per tre mesi, fin quando non fu catturato e imprigionato. Una volta libera Maragrazia si era scoperta incinta ad opera del suo carceriere. Rifiutò il bambino. La donna si rendeva conto che quel figlio non voluto avrebbe meritato lo stesso affetto che lei riservava agli atri due figli partiti per l’America lasciandola sola nel paese a pitoccare, ma non riusciva a considerare Rocco, figlio suo, perché era il sangue che si ribellava, tanto era forte il rifiuto che sovrastava il suo sentimento. Quel figlio somigliava troppo a suo padre, e ogni volta che lo vedeva la donna ricordava i terribili momenti passati. Maragrazia continuerà a mendicare e a chiedere ai compaesani la carità di scrivere una lettera ai figli lontani che ormai l’hanno dimenticata.

    L’IMBECILLE

    Un giovane malato di tisi si suicida impiccandosi. Il direttore di un giornaletto di provincia commenta la vicenda in maniera cinica, affermando che il giovane, prima di suicidarsi, sarebbe dovuto andare a Roma ed uccidere un senatore a capo del movimento politico avversario e poi impiccarsi. Così si fa! Luca Fazio é un giovane studente ammalato anch’egli di tisi. È tornato a morire nel suo paese. Ha ascoltato le affermazioni del direttore al quale spiega di essere tornato in paese perché proprio quel senatore gli aveva pagato il viaggio perché uccidesse il direttore di quel giornale. Luca Fazio ha una pistola in pugno, ma non ucciderà, chiederà al direttore di sottoscrivere una certa dichiarazione …

    LA VERITÁ

    È una novella, prodromo della commedia Il berretto a sonagli. Tararà, un povero bracciante, confessa al giudice di non aver potuto fare a meno di ammazzare la moglie che lo aveva cornificato, svergognandolo davanti a tutto il paese.
    Ciampa si ritroverà nelle stesse condizioni. Devono, entrambi, vendicare il loro onore, pena il disprezzo dei loro concittadini; ma c’è un lampo – quel bagliore che all’improvviso pervade tutta l’opera pirandelliana – Ciampa non ammazza la moglie, ma riesce a convincere la signora Fiorica che aveva scoperto la tresca, a farsi passare per pazza ed entrare in una casa di salute, in modo che le ragioni da lei urlate non siano credibili.
    Tararà, invece, ammazza la moglie con un colpo d’accetta, non ha potuto farne a meno.
    Il lampo pirandelliano non era ancora balenato. Siamo nel 1912!

    LA PATENTE

    Chiarchiaro è creduto da tutti uno iettatore; per questo, padre di famiglia e lavoratore onesto, viene cacciato dal lavoro proprio perché additato come portajella. Impossibilitato a mantenere la moglie paralitica e le sue giovani figlie, decide di denunciare due personaggi importanti del paese per oltraggio, poi correre dal giudice per chiedere la loro assoluzione. Spiega al giudice che la condanna sarà il riconoscimento ufficiale della sua potenza terribile che è ormai il solo e unico suo capitale.
    La patente di iettatore gli conferirà il diritto di pretendere soldi per scongiurare eventuali sfortune
    al malcapitato di turno. Questa è la vendetta del protagonista contro una società che l’ha gettato ai
    ai margini e trasformato in un diverso.
    Terzo gruppo

    LA MORSA

    È una stanza della tortura in cui non vi è alcun boia. La tortura è l’evidenza della vita che viene mostrata. I vincoli sociali fanno sì che i personaggi possano solo sfiorarsi, mentre le loro vite sono staticamente chiuse in bacheche di vetro, simboli di ruoli sclerotizzati, che si ripetono infinitamente senza alcun epilogo. La vicenda è di quelle ancestrali: il triangolo del tradimento, il sottile amante che inizia a sentire il fiato sul collo e cerca la fuga, l’annoiata donna traditrice che prende coscienza del suo stato, il marito oberato di lavoro che si trasforma in persecutore. Ciascun personaggio presto rivela il suo patimento interiore: ognuno è vittima di un ruolo che non ha nulla a che vedere con le proprie emozioni. La morsa è stretta da un vago ma asfissiante rapporto tra l’uomo e la società e ciascuno è perciò destinato a vivere in solitudine il dibattersi della propria esistenza nel ruolo, solo come gli oggetti nelle bacheche.

    L’UOMO DAL FIORE IN BOCCA

    Di notte, in una stazione ferroviaria, un uomo racconta ad un passeggero che ha perduto il treno, come si confeziona un pacchettino, come sono fatte le sale d’aspetto di un medico, perché la moglie lo segua ogni notte, poi, all’improvviso, fa vedere l’epitelioma che gli sta crescendo sotto un baffo … la morte è passata, mi ha ficcato questo fiore in bocca e m’ha detto tientilo, ripasserò tra otto, dieci mesi … e, prima di congedarsi, chiede un piacere al passeggero: arrivato a destinazione, mentre ritorna a casa, conti i fili del primo e più grosso cespuglietto d’erba che troverà per istrada; ma che sia bello grosso! Perché il numero dei fili che conterà sarà pari ai giorni di vita che gli restano da campare.

    ALL’USCITA

    All’uscita di un cimitero s’incontrano due morti che, abbandonati i loro corpi in disfacimento nelle tombe, prima di scomparire del tutto, riflettono tra loro su quello che furono in vita e sul legame di sentimenti e di risposte che ancora attendono e che ancora li unisce a quelli che sono tuttora viventi.
    L’uomo grasso aspetta d’incontrarsi con la moglie che l’ha tradito in vita, il filosofo, magro e capelluto, attende di avere le risposte alle domande che lo hanno travagliato. Quand’ecco arriva un nuovo defunto: è la moglie dell’uomo grasso che, ridendo come una pazza, annuncia di essere stata uccisa dal suo amante. La stridula risata della donna s’interrompe trasformandosi in pianto accorato solo alla vista di un morticino che mangia una melagrana.
    Tutti rientrano perché hanno ricevuto una risposta, tranne il filosofo che rimane lì fermo all’uscita del cimitero per continuare a porsi per sempre le irrisolvibili domande sul senso della vita.

    Ultima settimana

    ENRICO IV

    Circa venti anni addietro, in tempo di carnevale, c’era stata una cavalcata in costume dove ognuno aveva rappresentato un personaggio storico con la sua dama accanto. Uno di loro, mascherato da Enrico IV di Germania, cadde da cavallo, batté la testa e rimase fisso, per vent’anni, nel suo personaggio. È l’antefatto.
    Ora egli vive – Enrico IV – in una villa solitaria dove, un giorno, si presentano quella che fu la sua dama accanto, il suo rivale in amore che fece springare il suo cavallo facendolo cadere e un medico alienista che con un trucco violento spera di guarirlo come un orologio che si sia arrestato a una certa ora e che si rimetta a segnare il tempo, dopo un così lungo arresto. Il mascherato, però, è già guarito. Se ne era accorto un giorno guardandosi nello specchio; aveva preferito restare pazzo.
    Come un vecchio attore, aveva voluto restare nei panni del suo personaggio per viverla con la più lucida coscienza la sua pazzia.
    Quando sul finale quello che fu il suo rivale in amore scopre che Enrico IV non è più un pazzo e la tensione del racconto raggiunge il massimo della sua iridescente angoscia aprendosi ad un omicidio, la regia fulmineamente lo esclude con una fervida intuizione.
    La regia è uscita dalle abitudini, dalle pratiche pirandelliane, non ha interpretato la maschera e la persona, ma capito perché Enrico IV si piace in quella carnevalesca rappresentazione che dà a sé stesso e agli altri della sua regalità. Non più quel raisonneur in punta di fioretto che con abilità istrionica si destreggiava sul filo teso della pazzia e della finzione, ma un teatrante che dietro il sipario del suo travestimento offre ai suoi ospiti lo spettacolo un po’ compiaciuto del suo virtuosismo dialettico. Il più tragico personaggio di Pirandello giuoca la propria parabola in una carnevalata fittizia e claustrale. La sua esistenza si risolve e si dissipa in azione scenica. Ecco perché la recitazione, la ricomposizione del testo, le musiche, tutto diventa spia di una precisa lettura registica dove il confine tra personaggio-uomo e personaggio-attore si rarefa sino a diventare inafferrabile. Enrico IV è un attore e un poeta che conosce la stoffa di cui sono fatti i sogni, due ruoli per lo stesso personaggio, come non a caso insegna Michel Foucault nella Storia della follia, e tanti drammi di Shakespeare stanno lì a testimoniarlo. La regia ha geometrizzato la follia del testo, ha innalzato una linea di confine dalle pareti alte e sottili. Oltre si potrebbe andare, ma non si può uscire. Quando i cosiddetti saggi tenteranno di scombinare gli equilibri, la cittadella si rinchiuderà nel regno dell’immaginazione perpetua, della solitudine esistenziale.
    Enrico IV è l’altro versante del quotidiano, è l’aspirazione a mettersi in salvo nei ruoli intimati dal mondo della fantasia. È un poeta malinconico avvolto in un mantello di solitudine, è un Amleto che discetta sulla condizione umana di cui è vittima e trionfatore, indossa e si fa carico del travestimento per la vita. E’ l’attore che assume su di sé la funzione della follia per scrollare le certezze che ancorano l’esistenza. È lo scrittore che si rinchiude definitivamente nella sua arte.

    Ingresso € 18,00 (intero), € 15,00 (ridotto)
    Inizio spettacoli ore 21.15 – apertura botteghino ore 20
    Informazioni e prenotazioni: 06.6620982
    Posteggio facile
    Servizio Bar

    Ufficio Stampa
    Maresa Palmacci

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