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Mastro Titta

angeloSono assolutamente contrario alla pena di morte.
Non voglio qui argomentare la mia convinzione ma limitarmi a proporre un breve brano tratto da un libro intitolato “Mastro Titta, il boia di Roma” che, come recita il sottotitolo, riporta le “memorie di un carnefice scritte da lui stesso. Si tratta specificatamente della sua prima esecuzione eseguita nel 1796.

Prima però due parole sul personaggio di Mastro Titta:
Giovanni Battista Bugatti, detto Mastro Titta (Senigallia, 6 marzo 1779 – Senigallia, 18 giugno 1869 è stato l’ultimo boia di Roma, esecutore delle sentenze capitali dello Stato Pontificio. La sua carriera iniziò a soli 17 anni, il 22 marzo 1796 e si protrasse fino al 17 agosto 1864, quando Papa Pio IX gli concesse la pensione con un vitalizio mensile di 30 scudi. Nei 68 anni di servizio eseguì 516 sentenze tra suppliziati e giustiziati.
Il boia viveva nella cinta vaticana sulla riva destra del Tevere, in Borgo (quartiere Prati), e nella città “laica” normalmente non doveva entrare. Da qui origina il proverbio romano “Boia nun passa Ponte”, che ha il significato di ognuno se ne stia nel suo pezzo di mondo.

A Roma le esecuzioni capitali pubbliche, decretate in nome del papa-re, non avvenivano nel borgo papalino ma nella città dei romani oltre il Tevere, a Piazza del Popolo, o a Campo de’ Fiori, o nella piazza del Velabro.
Conseguentemente in eccezione al divieto il boia doveva attraversare Ponte Sant’Angelo per andare a compiere i suoi servigi. Questo fatto diede origine ad un’altra espressione caratteristica romana “Mastro Titta passa ponte”, per dire che era in programma per la giornata l’esecuzione di una sentenza di morte.

Lascio la parola direttamente a Mastro Titta nella speranza che possa inorridire adeguatamente tutti coloro non sono contro la pena di morte.
Esordii nella mia carriera di giustiziere di Sua Santità, impiccando e squartando a Foligno Nicola Gentilucci, un giovinotto che, tratto dalla gelosia, aveva ucciso prima un prete e il suo cocchiere, poi, costretto a buttarsi alla macchia, grassato due frati. 
Giunto a Foligno incominciai a conoscere le prime difficoltà del mestiere: non trovai alcuno che volesse vendermi il legname necessario per rizzare la forca e dovetti andar la notte a sfondare la porta d’un magazzino per provvedermelo. Ma non per questo mi scoraggiai e in quattr’ore di lavoro assiduo ebbi preparata la brava forca e le quattro scale che mi servivano.
……..
Due ore innanzi lo spuntare del giorno susseguente lo svegliarono per fargli ascoltare la messa: il confessore gli parlò e gli impartì l’assoluzione e l’indulgenza in articulo mortis che il papa soleva concedere in tali circostanze. Confessato e comunicato, i confortatori gli apprestarono l’asciolvere. Gentilucci mangiò, bevve e si trovò alquanto rinfrancato d’animo.
Nondimeno il confessore lo confortò ancora, assicurandolo che egli stava per avviarsi al cielo. Il condannato avrebbe forse desiderato di differire d’un altro mezzo secolo il viaggio, ma assicurato che non avrebbe che differita la sua felicità, si preparò a farlo allegramente.
Mi presentai in quel mentre e togliendomi il cappello ossequiosamente offersi una moneta al Gentilucci, come di rito, perché facesse celebrare una messa per la sua anima. Quindi, ricopertomi il capo, gli legai le mani e le braccia in modo che non potesse fare alcun movimento tenendone i capi nelle mie mani per di dietro.
……..
Giunto sulla spianata ove doveva aver luogo l’esecuzione, Nicola Gentilucci fu fatto avvicinare ad un piccolo altare eretto di fronte alla forca e quivi recitò un’ultima preghiera. Poi, rialzatosi, lo condussi verso il patibolo a reni volte, perché non lo vedesse e fatto salire su una delle scale, mentre io ascendevo per un’altra vicinissima.
Giunto alla richiesta altezza, passai intorno al collo del paziente due corde, già previamente attaccate alla forca, una più grossa e più lenta, detta la corda di soccorso, la quale doveva servire se mai s’avesse a rompere la più piccola, detta mortale, perché è questa che effettivamente strozza il delinquente. Il confessore e i confortatori intanto, saliti sulle due scale laterali, gli prodigavano le loro consolanti parole. Gli altri confortatori in ginocchio recitavano ad alta voce il Pater noster e l’Ave Maria e il Gentilucci rispondeva. Ma appena ebbe pronunziato l’ultimo Amen, con un colpo magistrale lo lanciai nel vuoto e gli saltai sulle spalle, strangolandolo perfettamente e facendo eseguire alla salma del paziente parecchie eleganti piroette.
La folla restò ammirata dal contegno severo, coraggioso e forte di Nicola Gentilucci, non meno che della veramente straordinaria destrezza con cui avevo compiuto quella prima esecuzione.
Staccato il cadavere, gli spiccai innanzitutto la testa dal busto e infilzata sulla punta d’una lancia la rizzai sulla sommità del patibolo. Quindi con un’accetta gli spaccai il petto e l’addome, divisi il corpo in quattro parti, con franchezza e precisione, come avrebbe potuto fare il più esperto macellaio, li appesi in mostra intorno al patibolo, dando prova così di un sangue freddo veramente eccezionale e quale si richiedeva a un esecutore, perché le sue giustizie riuscissero per davvero esemplari.
Avevo allora diciassette anni compiti, e l’animo mio non provò emozione alcuna. Ho sempre creduto che chi pecca deve espiare; e mi è sempre sembrato conforme ai dettami della ragione ed ai criteri della giustizia, che chi uccide debba essere ucciso.

Possibile ci sia ancora gente al mondo che ragiona come Mastro Titta.

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