Le mie perle di plastica art

Le mie perle di plastica

Le mie perle di plastica art“Non era ancora inverno
Forse solo appena un poco autunno.
Non era ancora inverno
Quando ti ho incontrato.”
Parole traboccanti di vita come forse può essere solo a vent’anni. Poi la sentenza: linfoma di Hodgkin, e da allora le parole cambiano. Diventano ospedale, terapie, paura, dolore.
Anche la vita cambia, e Roma, la tua città, si trasforma in una carta geografica dell’orrore, i cui punti di riferimento sono il policlinico Tor Vergata e l’ospedale Sant’Eugenio.
“Sì, voglio combattere ancora. Sì, rivoglio la mia vita e me la prenderò a tutti i costi.”
A spiegare come, può essere solo lei, Elena Carlini, che nel romanzo autobiografico Le mie perle di plastica, (Casa Editrice Kimerik), racconta la discesa agli inferi e la luce ritrovata.
Difficile definirlo solo un libro. E’ anche, e soprattutto, un viaggio che nessuno vorrebbe fare nella vita, alla fine del quale, incredibilmente, si può rinascere.

Carlini Elena artMa io voglio la mia vita di prima. Anzi voglio la vita che mi ero preparata a vivere e che non ho fatto in tempo a vivere.”
Elena, cosa succede quando a vent’anni la vita ti colpisce con una diagnosi di cancro?
La vita cambia drasticamente all’improvviso. Non hai più vent’anni, ecco cosa succede. Se prima c’era il futuro, dopo una diagnosi del genere il futuro non esiste più. I vent’anni non esistono più. Ci sono gli ospedali, i dottori, le terapie, le paure, il dolore. Ma la cosa peggiore è che nella vita di una malata di cancro entra prepotentemente un fattore che prima non c’era: il pensiero della morte. La morte come una cosa vicina, prossima, inevitabile.
Chi, a vent’anni, sente la vita sfuggirgli tra le dita?
Io a vent’anni alla morte non ci pensavo, proprio non mi sembrava possibile che io potessi morire.
Dopo la diagnosi, durante tutti quei giorni terribili, il fantasma della fine, della fine della mia vita, mi danzava intorno, non c’era nulla che potesse distogliermi dall’improvvisa consapevolezza del mio essere mortale.
E’ questo che cambia.
Bisognerebbe abituarsi all’idea giorno dopo giorno, negli anni, da vecchi, dopo tutta la vita vissuta.
Scoprirlo a vent’anni è violento, crudele. Si rimane senza respiro.

Nel tuo romanzo, tu stessa ammetti che non è facile stare vicino a una persona malata. Cosa ti dava più fastidio e cosa invece ti confortava dell’atteggiamento delle persone?
Le altre persone non sanno cosa vuol dire, non possono nemmeno immaginarlo. Quindi è inutile provarci. Non esiste un modo giusto o un modo sbagliato per stare accanto a una persona malata. C’è chi proprio non ci riesce. C’è chi non ce la fa, chi ci prova e sbaglia e soffre, ma ci prova. C’è chi invece riesce sempre a trovare la cosa migliore da dire. Io ho perso degli amici che non ce l’hanno fatta, altri sono stati vicino a me dall’inizio alla fine, altri ancora sono arrivati a metà percorso. Io ho avuto bisogno di tutti.
Non conta tanto come si fa, l’importante è esserci.

Un giorno, in sala operatoria hai pensato: “Papà, quanto deve essere difficile per te, oggi, fare il dottore.”
In effetti tuo padre, oltre a essere stato profondamente coinvolto a livello emotivo, era consapevole della situazione più di chiunque altro, in quanto medico …
Una volta mio padre mi ha detto “la vita mi ha tradito”. E’ proprio così. Mio padre ha dato tutta la sua vita, tutta la sua fatica per gli altri, per curarli. E la vita l’ha colpito, colpendo sua figlia, in un modo tale da renderlo completamente impotente. Mio padre è chirurgo, e il mio tumore non è curabile con la chirurgia, ma solo con chemioterapie devastanti. Mio padre, dopo tutta la vita passata accanto ai malati, è stato accanto a me e mi ha vista soffrire per 15 lunghissimi mesi.
Io non lo so come abbia fatto, ma è stato, ed è, il papà migliore del mondo, oltre che un dottore.

Ad un certo punto scrivi: “Forse nei miei occhi si legge già l’espressione particolare che riconosco negli occhi di chi è stato  visitato dalla sofferenza. Si vede. Io lo vedo.”
Secondo te perché dopo un’esperienza drammatica come la tua, alcune persone diventano un ponte verso gli altri e altre un’isola?
Dipende dalle persone. C’è chi si isola, chi vuole dimenticare, chi non riesce a parlare della sua storia, e chi invece non può fare a meno di parlarne, di condividere, di raccontare.
Dall’inizio di tutto, da quel primo giorno di maggio quando quel medico sconosciuto mi ha detto che avevo un cancro, non sono mai stata zitta, proprio non ci sono mai riuscita. Ho fatto amicizia con malati ed ex malati, con dottori e infermieri, con i parenti dei malati, con tutti. Ho scritto sempre, dall’inizio, fino a scrivere il mio libro.
Perché sono fatta così, perché vivere le cose da sola per me è troppo difficile, io ho bisogno degli altri. Quando sono entrata per la prima volta nella sala della chemioterapia, quello che ho visto, quello che ho sentito, non aveva niente a che vedere con tutto quello che avevo visto e sentito fino ad allora. Non avrei mai immaginato che potesse esistere un mondo così, un mondo parallelo al nostro mondo.
Ero sola, sbattuta in una realtà terribile. Sono diventata amica della mia vicina di letto, poi del signore che faceva la chemio il giovedì pomeriggio, poi della ragazza guarita che faceva la terapia di follow-up. Poi di tutti. E, piano piano, non sono mai più stata sola.
Adesso, ricevo e-mail da ragazze e ragazzi ai quali un medico sconosciuto ha appena comunicato quella terribile diagnosi, da genitori, da figli, da chi sta passando quello che ho passato io, che leggono il mio libro e che si sentono meno soli. E’ un dovere per me, che sono guarita.
E’ un dovere farmi vedere con i capelli lunghi, sana e felice, è un dovere fare della mia vita una testimonianza per chi si trova nel lungo tunnel della malattia, per chi ha paura di non uscirne, e dire loro che si guarisce, che si guarisce davvero e che alla fine il sole ritorna a splendere.  

Elena, tu sei stata ricoverata per un lungo periodo all’ospedale Sant’Eugenio, dove hai sfiorato la morte.
E’ vero che è proprio lì che vorresti dare alla luce i tuoi figli?
Io all’ospedale Sant’Eugenio sono nata per la seconda volta. Sono stata curata lì, dall’inizio alla fine, lì ho vissuto lunghissimi ricoveri, e anche l’ultimo, quando ho fatto il trapianto di midollo osseo. Quel giorno, è come se fossi rinata.
Sarebbe davvero bello se anche i miei figli nascessero nello stesso ospedale.
Sarebbe come un regalo alla vita. Per ringraziare a mia volta della vita che mi è stata donata, per la seconda volta, in quello stesso ospedale.

Le mie perle di plastica
di Elena Carlini
Casa Editrice Kimerik

IL RICAVATO SARA’ DEVOLUTO A FAVORE DELL’AIL  (ASSOCIAZIONE ITALIANA CONTRO LE LEUCEMIE-LINFOMI E MIELOMA)

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